di Francesco Careri
il film c’era una volta savorengo ker di Fabrizio Boni e Giorgio De Finis (2009) è interamente scaricaile on line su vimeo insime a tutto l’achivio video).
Il film racconta una storia inverosimile, è la storia di una casa di legno costruita in un campo Rom, una piccola casetta che ha fatto sognare tante persone e ha ne ha fatto infuriare ancora di più. È una storia breve – i sei mesi di vita di questa casetta – ma che ha radici in un conflitto che dura dalle origini stesse dell’umanità, almeno da quando Caino, sedentario e padrone dei campi agricoli, uccise suo fratello Abele, nomade padrone di un gregge di pecore, consumando il primo omicidio della storia dell’umanità. In questo film si racconta di quando Caino e Abele – forse per la prima volta – provarono a costruire insieme una casa per tutti, per i cosiddetti “nomadi” e per i cosiddetti “sedentari”. Gli attori del film sono una miscela di persone molto diverse tra loro: i protagonisti principali sono i Rom del campo Casilino 900 e in particolare i “direttori dei lavori”, maestri nel costruire le case di legno; al loro fianco troviamo varie persone che affermano di agire in nome di Stalker Osservatorio Nomade, e poi ricercatori e dipendenti del Dipartimento di Studi Urbani, studenti, laureandi e neolaureati di diverse facoltà di architettura italiane, un professore di sociologia dedito da anni alla causa Rom, architetti, artisti, film makers, registi, fotografi, giornalisti, scrittori, amici, curiosi, parenti, e tanti bambini figli sia dei nomadi che dei sedentari. In questo film recitano anche i politici, a volte compaiono fisicamente nello schermo, altre volte sono invisibili ma gli effetti delle loro meschinità influiscono sulla trama e alla fine li vediamo sorridere quando intorno tutti quanti piangono.
Il film è ambientato a Roma, nel clou di quella “Questione Rom” che sconvolse l’Italia agli inizi del terzo millennio, quando una minoranza etnica che non arrivava neanche a superare lo 0,03% della popolazione sembrava minacciare la fine della società stessa, quando genti più pericolose delle organizzazioni mafiose spadroneggiavano nel Paese. Genti tanto ignobili da meritarsi di venire concentrati in campi di container lontani dalla città, con un tesserino di riconoscimento per entrare ed uscire, reti metalliche tutto intorno, telecamere di sorveglianza e guardie e gendarmi agli ingressi. È per sfuggire a questi campi che nasce l’idea di realizzare la casa. I Rom, che sanno costruire baracche ma anche abitazioni solide calde e a volte belle, dicono che con i soldi che si spendono per i container e per far funzionare i campi, loro sarebbero capaci di costruire case, quartieri e città degne di questo nome. Dopo una prova di sgombero organizzata come campagna elettorale di un candidato sindaco perdente (cfr. il film Rom to Roma), ne parlano con Stalker ON e cominciano a lavorare a un progetto. In meno di un mese convincono studiosi, professionisti e addirittura il Prefetto, che c’è una strada percorribile, una soluzione non solo per i Rom ma anche per le tante persone che sopravvivono in condizioni precarie, nella speranza che un giorno si ricominci a costruire le case popolari. La casa si deve fare e si chiamerà “Savorengo Ker”, che in lingua romanès vuol dire “la casa di tutti”.
Il problema sono i politici: “l’idea è interessante e potrebbe anche funzionare… ma se poi ci perdessi qualche voto? Meglio che voi andiate avanti senza che io ne sappia niente”, viene dato un Patrocinio ufficiale e, cominciati i lavori, una autorizzazione temporanea per un “prototipo abitativo a uso espositivo”, che presto si rivelerà una trappola. Da sempre i politici, tutti, sono pronti a chiudere un occhio con i Rom se loro rimangono in uno stato di ambiguità, di semi-illegalità e quindi di ricatto. Chi sorprende è invece l’anziano direttore del dipartimento universitario, di fronte alle ambiguità degli amministratori rassicura tutti con un “sapevamo che non era un autostrada”. Dunque il cantiere va avanti, anche se il sentiero è spinoso i documenti necessari ci sono, la casa sarà la prima “baracca con i documenti” di un campo in cui quasi nessuno ha i documenti per camminare per strada.
Il cantiere comincia, e sono giorni intensi in cui si vivono nascite e lutti della comunità. Il primo giorno si comprano il legni, i chiodi, i martelli e si lavora fino a tarda notte, il secondo giorno lo scheletro è già in piedi, il terzo giorno muore la zia di tutti e il cantiere si ferma tre giorni per il lutto, si lasciano gli strumenti per la processione dal campo alla chiesa con camion pieni di gente e poi il sesto giorno si cambia tutto il progetto: la casa era troppo piccola, deve essere più grande, più bella, più alta, con una bella terrazza, una grande scala, una ampia veranda, un tetto a quattro falde, pareti doghettate… Il cantiere continua in questo modo, per un mese, idee ogni girono il progetto di arricchisce di ogni suggerimento, realizzando ogni desiderio. Si progetta e si costruisce discutendo ogni sera di fronte alla carne arrostita sulla brace e cibi meravigliosi che arrivavano dalle baracche, litigando e poi riappacificandosi, tra disquisizioni architettoniche, descrizioni tecnologiche, incomprensioni culturali, racconti di vita, di amori e di morti.
Le storie sono quelle del Casilino 900, storie di macedoni, bosniaci, kosovari e montenegrini, scappati dalle guerre e dimenticati dal mondo, storie di persone che da tre generazioni vivono con l’incubo quotidiano del permesso di soggiorno. La casa non è la priorità, l’urgenza principale sono i documenti, la loro stessa identità: hanno l’atto di nascita, le pagelle, il tesserino sanitario, le bollette pagate, ma a diciotto anni automaticamente diventano clandestini e rischiano il rimpatrio in una patria che non hanno mai visto, di cui non conoscono la lingua e dove le anagrafi sono spesso state bruciate durante la guerra. Ma Savorengo Ker nasce dall’idea che “la casa” è un primo passo verso la costruzione di una nuova identità, è la “baracca con i documenti”: loro lo sanno bene che la baracca e anche il container seguono le normative edilizie e non possono avere l’abitabilità e neanche un numero civico. Una vera casa con tutti i documenti in regola sarebbe invece un primo passo per la cittadinanza, un indirizzo da scrivere su un documento al posto dell’attuale dicitura “campo rom casilino 900”, non una identità ma un vero marchio di riconoscimento.
Mirsad, Bairam, Hakya, Senad e Kley, i “direttori dei lavori” e gli altri che partecipano alla costruzione della casa, sono persone che non vogliono rassegnarsi al degrado e ce la mettono tutta per mantenere una propria dignità, che quando possono lavorato nei cantieri edili ma vengono licenziati quando si scopre che sono Rom, che girano con i camion per raccogliere ferro e oggetti da riparare e rivendere nei mercatini dell’usato, che hanno grandi abilità inattese, di ogni pezzo di ferro sanno dire se proviene da un frigorifero, una lavatrice o una macchina da cucire, sanno smontare e rimontare qualsiasi tipo di motore, aggiustare qualsiasi mezzo di locomozione. Sono persone che dopo essersi svegliati all’alba per racimolare un pranzo e una cena, vanno fino a notte tarda a lavorare gratuitamente alla costruzione di Savorengo Ker, per inseguire tutti la stessa idea di uscire da questa condizione disumana di reietti.
Dal punto di vista economico-normativo, il metro di paragone sono i container: fare una casa che costa quanto un container ma che ha prestazioni e dimensioni di una “vera casa”, rispettando le normative edilizie e di risparmio energetico. Guardando il film si respira una grande energia, una sorta di utopia collettiva vissuta e abitata profondamente da tutti. Si comprende il ruolo costruzione di una comunità di diversi che può avere un cantiere di autocostruzione: le buone relazioni di vicinato, di pianerottolo, di condominio e di quartiere, si costruiscono attraverso un lavoro gomito a gomito, passandosi il martello. Il cantiere è una scuola di apprendimento reciproco, lo spazio dell’integrazione si produce attraverso un atto di creazione collettiva, costruendo insieme la propria casa, mangiando insieme e raccontandosi le proprie storie, i punti di vista da cui si guarda l’altro, senza peli sulla lingua, cercando di capire.
Il film parla di amicizia, di una fiducia reciproca nata per caso e alimentata ogni giorno, di una reciproca conoscenza e un superamento continuo dei reciproci pregiudizi fino a capire di poter stare veramente dalla stessa parte, in una lotta che è comune, consci del fatto che migliorando la vita dei Rom, anche la vita di tutti gli altri non potrà che migliorare.
Ma rimane ancora un problema: quella casa poteva veramente essere una soluzione per il problema abitativo dei Rom? Nel film il tema viene toccato in molti punti ma mai preso di petto. Savorengo Ker non è “la” risposta, ma una tra tante risposte che bisognerebbe fare emergere insieme ai Rom in un processo di ascolto e trasformazione reciproca. Il modello infatti non è quella casa in sé, ma il processo con cui è stata costruita. Ma se si supera la logica del campo quella casa può essere un modello, mentre i campi non potranno essere mai una soluzione, neanche se fatti con tante Savorengo Ker al posto dei container. Savorengo Ker era il
primo tassello della trasformazione del campo in un quartiere misto e interculturale: non un campo fatto di cloni di Savorengo Ker, ma un quartiere di case tutte diverse nate dalle relazioni con gli abitanti, una Nuova Babilonia balcanica di desideri abitativi, una sicura attrazione turistica come le chinatown americane, una baraccopoli capace di diventare città, come è stato per le borgate abusive degli anni sessanta che sono oggi uno dei pezzi migliori di città del dopoguerra.
Dopo un mese di lavoro arriva il giorno dell’inaugurazione, alla casa mancano ancora solo le finiture interne, i servizi e i sistemi energetici, ma la struttura è costata 8.000 euro ed misura 72 mq, mentre un container è di 32 mq e ne costa 22.000, la sfida è vinta. Ma il clima nel frattempo si è scaldato. È pieno di giornalisti, il Presidente del Settimo Municipio, il Sindaco e il Prefetto, che avevano confermato la loro presenza fino al giorno prima, danno forfait perché braccati da un “comitato di cittadini” infuriato, il cantiere viene sigillato su richiesta di documentazione aggiuntiva che prima non era stata richiesta e che anche quando viene presentata non sblocca il cantiere. Lo “chalet abusivo” come viene denominato dalla stampa, provoca grandi polemiche, quello che scuote gli animi è proprio il fatto che questo prototipo abitativo sia proprio una casa, l’archetipo della stanzialità. Savorengo Ker è un simbolo capace di comunicare che i Rom vogliono abitare in una casa vera, non in una roulotte né tanto meno in un container, che non vogliono i campi nomadi perché non sono “nomadi” come si vuole far credere, che vogliono mettere radici tra noi, abitare insieme a noi nel rispetto reciproco, addirittura dandosi una propria veste. Questo risulta inaccettabile: il Rom che viene ad abitare vicino a noi in una casa, fa ancora più paura di quello che vive in una baracca.
La casa attira sul campo maggiore sorveglianza, viene chiusa l’acqua e la strada di accesso, il cantiere rimane incompiuto e chiuso per tre mesi. Il malumore all’interno del campo cresce. Poi in una notte di pioggia la casa brucia, l’unica risposta ufficiale è che potrebbe essere stato un fulmine, il progetto muore, l’energia che aveva tenuto insieme il campo si dissolve, gli antichi rancori ritornano il film è finito.
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